Annamaria Ragni - artista


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racconti

L'urlo


Uscì di corsa, sbattendo la porta, accostò il cancelletto di legno e corse verso la vecchia quercia.
Si addossò alla corteccia ruvida e avvertì un fremito percorrerla lungo tutta la schiena.

Era finita ed era libera, finalmente!
Facendosi specchio con le mani, volse lo sguardo intorno ed in alto.
Davanti a lei l'albero rosso lanciava la sua chioma come una sfida verso un cielo al tramonto.
Sopra l'altura, il paese, reso evanescente dagli ultimi raggi del sole, sembrava assopito.
Dalla piccola baia, sul lago, proveniva lamentoso lo sciabordio della maretta.

-E' finita, è finita! - ripetè e si lasciò scivolare giù, lungo il tronco.
Si accovacciò sui talloni e fu allora che il grido, troppo a lungo trattenuto, uscì dal suo corpo.

L'urlo fu come un sasso scagliato nel vuoto, che attraversò le foglie purpuree e le fece palpitare al vento, colpì con un suono metallico il cartello stradale, mosse verso l'alto e percosse le case che sussultarono e si deformarono ed andò poi a rifrangersi nel lago in tanti giri concentrici e lì si spense.
Lei allora si accasciò sulla nuda terra: "Sono libera" - mormorò con voce accorata - "Sono libera, ma a quale prezzo!" -
Ci fu il silenzio, per alcuni attimi.
Alzò gli occhi verso quel sole che stava per morire e finalmente pianse e le sue furono lacrime di liberazione.
Si mise seduta, con una certa difficoltà, e lo sguardo corse al suo petto, e instintivamente portò le mani a croce al grembo là, dove quella macchia rossa si andava allargando, poco a poco, sul suo vestito bianco, come un papavero purpureo, che apriva i suoi petali in mezzo alla neve.
Poco lontano, sulla spiaggiola, la barca si lasciava andare dondolando, lambita appena da un velo biancastro di schiuma.
Intorno non un segno di vita, se non fosse stato per quella linea nera, perduta all'orizzonte, di uccelli migratori che, nel loro volo d'addio, salutavano l'ultimo barlume di quel giorno.

Il sole scendeva lento ed andava a perdersi in quell'acqua viscida ed imputridita dalle canne palustri, lasciando sul filo delle onde striature d'oro e di viola.
La malinconia la invase, le penetrò nel corpo, insinuandosi sin nei più intimi recessi della sua mente. Improvvisamente le tornò alla mente tutto: il passato vicino e il passato lontano, ciò che era stata e ciò che aveva fatto … già che cosa aveva fatto?
E perché?
E che cosa ne sarebbe stato ora di lei?

Sollevò il viso e rabbrividì ad una leggera brezza.
Presto sarebbe scesa la sera e lei non aveva dove andare; non poteva rientrare, no … non dentro quella casa che aveva raccolto i suoi desideri, i momenti trepidi della sua vita ma anche i suoi sospiri, le lunghe notti insonni e l'insostenibile senso d'oppressione che non l'aveva più lasciata negli ultimi tempi.

Non là dentro, dove lui giaceva immobile nel suo sangue.
Si era liberata in un momento di follia di un pesante fardello, o così le pareva, ma sapeva che il passato ed il triste presente sarebbero prima o poi ritornati.

Tornò a guardarsi la macchia rossa e le mani, sulla cui pelle si andava espandendo una leggera colorazione rossastra.
Erano ancora calde del sangue di lui … che l'aveva così amata e torturata.

Si sentì di nuovo sola.
Era finita così, lui l'aveva lasciata e, questa volta era per sempre.

Ritornò con il pensiero alla sua vita.
Della sua infanzia ormai lontana aveva ricordi vaghi e quasi impercettibili … frasi a frantumi, tasselli di pensieri e scene di vita a spezzoni le martellavano la mente e le attanagliavano lo stomaco, dissolvendosi a poco a poco in una nebbiolina trasparente, vuota rievocazione di un tempo rarefatto e sempre più lontano.
In quella dissociazione incontrollabile di immagini e pensieri, un vago volto di donna le si stagliava spesso davanti, con i lineamenti definiti ma con un sottile velo di mestizia negli occhi scuri e profondi, senza parole e … dietro a lei, un'interminabile serie di corridoi e porte, che si aprivano e si chiudevano e su tutto quell'eterno odore ristagnante di minestra rancida di collegio e poi … quell'enorme camerata, i bisbiglii sommessi delle bambine da un letto ad un altro ed il passo silenzioso, quasi impalpabile di lunghe tonache che, come azzurri fantasmi, scivolavano su quei pavimenti sempre tirati a lucido.

Dopo l'infanzia era rimasta lì, per bontà delle suore, dato che non aveva dove andare.
Dava una mano in ufficio, teneva buone le educande o svolgeva qualsiasi altro lavoro di cui ci fosse bisogno.

Lì lui l'aveva trovata, durante una visita dei soci benefattori.
Lei aveva notato subito, tra gli altri, quel bell'uomo brizzolato, con un non so che di fascinoso e maturo insieme, che aveva posato con insistenza i suoi azzurri occhi di ghiaccio nei suoi grandi occhi neri smarriti.

L'aveva portata via, in quel cottage in riva al lago, dove avevano trascorso un periodo felice.
In quelle pareti odorose di legno, che trasudavano ancora resina, lei gli aveva dato tutta la sua prorompente giovinezza.
Lui sapeva far palpitare all'unisono tutte le cellule del suo corpo.
Si erano amati a lungo e spesso.
A volte giocavano come bambini rincorrendosi, spruzzandosi l'acqua del lago addosso e lei aveva finalmente conosciuto quell'allegria che la sua infanzia le aveva negato.

Poi aveva dovuto dividerlo con quell'altra; erano spuntati fuori una moglie, dei bambini ed il suo lavoro, da uomo arrivato.
Non poteva perdere il tutto lui e lei aveva dovuto accettare.

Lui, adesso, stava via per lunghi periodi e poi tornava, più appassionato di prima e lei lo aspettava devota e paziente, ma ogni volta si sentiva sola, sempre più sola.
Il lago si andava colorando delle prime ombre della sera, quando lei si alzò, poggiò i suoi piedi scalzi sulla ghiaia luccicante ed umida, raggiunse a tentoni la sponda del lago, si asciugò gli ultimi due lacrimoni e si sedette sul bordo della barca, che ondeggiò sotto il suo peso.
Su quella barca si erano amati teneramente una sera, mentre la luna pioveva argento sui loro corpi nudi.
Il movimento della barca lasciò rotolare ai suoi piedi uno strano oggetto rotondo.
Lo raccolse e sorrise.
Ricordava perfettamente quando lo avevano comperato al mercatino del paese, sopra alla collina.
Era una di quelle frivolezze di cui lei si invaghiva spesso e lui l'accontentava.
Ora era finita in quell'angolo, dimenticata.
Era una di quelle bocce di vetro trasparenti, un souvenir, che lasciano cadere tanta neve, quando le muovi.
Lei la innalzò verso il cielo, la sfera brillò all'ultimo raggio di sole morente e l'acqua assorbì tutti i colori dell'iride.

Questa cosa le rimandò alla mente l'immagine di un grembo materno, ed era il suo utero, dove aveva appena smesso di pulsare la nuova vita, che vi si era da poco insediata.
Al centro della sfera era accovacciato un piccolo puttino nudo.
Lei la agitò e la neve prese a scendere sulle sue alucce di plastica dorata.

-Bambino mio - mormorò - Povero piccolo mio! Tu ci avevi scelto, volevi conoscere questo mondo ma né io né tuo padre ti abbiamo voluto!-
Il lago si mosse ed un'ondata più grande delle altre fece sobbalzare la barca.
Ella vi salì decisa, tolse i remi che buttò in acqua lontano, tolse il tappo dal fondo, si sedette calma, stringendosi al petto la sfera di vetro e lasciò andare la barca alla deriva.

Essa si dirigeva verso il centro del lago, prendeva acqua ed andava inabissandosi.
- Vengo, piccolo, vengo a te! - diceva stringendo forte al petto la sfera di vetro, con gli occhi chiusi.
A poco a poco la barca scomparve. Il vestito bianco le si allargò intorno al corpo come la corolla di una grande ninfea, le si gonfiò d'acqua, e poi di lei non rimasero che pochi cerchi concentrici, che la luna, appena spuntata, rigava d'argento.
Questa volta non urlò.


Questo racconto, il mio primo, è risultato vincitore della farfalla d'oro al concorso 50 & più a Riva del Garda.

*** *** *** *** ***




Un paio di scarpe da sposa


Entrò nel vicolo con passo incerto e, soffermandosi dapprima all'inizio dell'acciottolato, gettò uno sguardo d'insieme e tutto gli sembrò come l'aveva lasciato quel giorno in cui se ne era andato ma era come se il tempo fosse passato congelando ogni cosa.
C'era stato all'epoca il grande terremoto e gli inquilini avevano abbandonato quel luogo per non tornarvi mai più.

Volse lo sguardo in alto e rivide il medesimo pezzetto di cielo ristretto che s'insinuava tra le alte mura dei due alti palazzi, scivolava rapido sulla fiancata annerita della chiesa e si andava a perdere tra i mattoni sconnessi del selciato.
La strada era completamente deserta e avvolta in un silenzio innaturale.
Tutto ciò gli provocò un senso di tristezza e desolazione, si volse per andarsene ma si fece coraggio e mosse i primi passi su quelle pietre grigie che avevano accolto i suoi sogni di ragazzo.
Procedeva a passo lento riconoscendo i vari luoghi, bugigattoli scuri che un tempo avevano la pretesa di chiamarsi botteghe: la trattoria da cui usciva sempre odor di cibo casereccio, chiusa da due porte sconnesse.
Riconobbe la rilegatoria, da cui vecchi libri consunti uscivano con vestiti nuovi fiammanti, ora preda della polvere e del degrado.

La sua attenzione fu richiamata da un secco sbattere di una porta a vetri e girandosi di scatto lo riconobbe, il modesto antro scuro che era stato la bottega in cui aveva lavorato come ciabattino.
Era aperta, la spinse ed entrò.
Gli occhi si dovettero abituare al buio intenso ma poi a poco a poco percepì le diverse cose.
C'era ancora il deschetto con i chiodini arrugginiti, un pezzo di spago annodato e vari attrezzi sparsi sul pavimento. Non ne era certo ma gli parve di respirare ancora insieme all'acre sentore di muffa l'aromatico profumo del cuoio nuovo.

Si sedette come una volta sullo sgabello di legno sgangherato e spagliato e quello strano antico ricordo lo prese, poco alla volta richiamato in vita da chissà quale anfratto recondito della memoria.
Era un ragazzo allora, poco più che un adolescente quando, terminate le scuole dell'obbligo, lo avevano mandato "a bottega" presso il ciabattino del luogo.
Il lavoro gli piaceva ed apprendeva il mestiere con maestria.

Era diventato bravo ed ora era un imprenditore calzaturiero "arrivato" e fabbricava per il mercato scarpe di lusso, scarpe che venivano buttate via alla prima sbucciatura.
Allora, invece, le scarpe dovevano durare a lungo e si usava risuolarle e riparare buchi e ricucire tomaie rotte ed il vicolo risuonava continuamente del ticchettio del martelletto che batteva sui tacchetti.
La clientela non era ricercata ma entrava con le scarpe sfondate e ne usciva con un bel paio riparate e lucidate, come se fossero nuove di zecca.
Nel frattempo i clienti si sedevano e chiacchieravano del più o del meno e questo a lui piaceva.

A volte venivano commissionate un bel paio di scarpe nuove per qualche occasione importante ed allora era festa ed a fine settimana il padrone lo gratificava con qualche soldino in più sulla "paghetta" da apprendista.
Cercò di ricordare alcuni degli abitanti del vicolo, clienti usuali della bottega ma non gliene sovvenne nessuno.
Vide solo o gli sembrò di vedere un leggera ombra bianca nel buio del locale che sembrava accennare a piccoli passi di danza.

Gli sovvenne all'improvviso, Ninì, arrivata in un giorno di tormenta di neve con la madre e riparatasi nel grande portone del vicolo.
Vi erano rimaste, in locali ricavati da un sottoscala.
Cucinavano in un cortile all'aperto e dormivano in una stanza umida e scura. I condomini del palazzo le avevano lasciate stare.

La madre faceva i servizi occasionalmente nelle famiglie e alla mattina le metteva un bel fiocco bianco tra i capelli, le preparava il solito panino per il pranzo, la metteva in strada e se ne andava al lavoro, e lei era sempre fuori a correre, saltare e giocare, felice come una farfalla a primavera.
Alla sera la madre tornava e, sulla soglia, la chiamava per il rientro, sempre al solito modo: "Ninì de mamma, corri a casa!" e lei sbucava ogni sera da un angolo diverso della strada ma quel nome le si era appiccicato addosso, "Ninì de mamma" era rimasta per tutti.

Poteva avere più o meno la sua età.
Spesso entrava nella bottega e si fermava a parlare e il padrone la lasciava fare.
Tutti lasciavano fare e amavano quella ragazzina, sempre allegra, nonostante la misera vita.

Avevano preso l'abitudine di pranzare insieme seduti sulle scale del grande portone, sbocconcellavano i loro panini e spesso se li scambiavano.
Ninì non aveva conosciuto il padre, non disse mai né da dove veniva né quale fosse stata la sua vita di prima, nessuno glielo chiese mai.
Dopo il lavoro, qualche volta , si fermava a giocare con lei.
Ninì de mamma era abile nelle partite a carte, faceva saltellare sulla pista di sabbia le palline di terracotta come i maschi o improvvisava spettacoli di danza per lui al chiuso del portone.
Lui le batteva le mani e lei se ne usciva spesso con questa cosa: "Dai, perché non ci sposiamo da grandi?".

E poi successe quella cosa.
Arrivò nella bottega una giovane sposa, dai piedini minuti e ordinò, per il giorno del suo matrimonio. un paio di scarpe bianche, di pelle fina.
Partecipò anche lui alla loro confezione ed alla fine riuscirono perfette, con un bel fiocco di raso lucido sul davanti e furono poste in attesa nello scaffale.

Un giorno in cui il principale era assente Ninì capitò in negozio e scorse le scarpe e le piacquero così tanto che insistette per provarle.
Non seppe dire di no e la ragazzina improvvisò per lui, nell'oscurità di quella stanza un danza, che concluse con un inchino.
Lui la applaudì e la baciò su di una guancia ed era il loro primo bacio, tenero da adolescenti.

Fu un dramma.
La giovane sposa notò le scarpe sporche sotto le suole e si accorse che avevano perso un poco del loro splendore, le rifiutò e se ne andò infuriata, senza pagare.
Fu licenziato in tronco e quando se ne andò gli furono tirate dietro le inutili scarpe, che raccolse ed avvolse in un foglio bianco di carta velina.

Dovette andare lontano in città per trovare altro lavoro ma prima di partire passò a salutare Ninì e insieme al bacio d'addio le regalò le scarpe.
Aveva fatto carriera ed adesso tornava al suo paese e gli aveva preso una strana smania di rivedere i luoghi della sua infanzia.
Entrò titubante nel vecchio portone: padrona del luogo era ormai solo l'erba vetriola.
Lo colse un senso di vuota desolazione, quando vide scendere dalle scale, mano nella mano, ridendo forte due giovani.

Si fermò loro davanti e chiese titubante: "Ma ... qui non abita più nessuno?" - No - gli fu risposto - se ne sono andati tutti, i nostri genitori abitavano qui, noi veniamo a volte, è l'unico posto in cui possiamo stare tranquilli".
Giù nel cortile, anni addietro, c'era una famiglia ... una ragazzina ... la mamma ...
Ah sì! La piccola Ninì, me lo ha raccontato mia madre, parlò la ragazza e soggiunse con melanconia - andata anche lei, se la portò via una forte influenza nell'inverno dell'anno .... non ricordo più quando .... mi spiace, la conosceva?-
Certo, lasciamo perdere ...
La cosa strana è che volle per forza che, prima di morire, le mettessero un paio di scarpe bianche, sa di quelle che si preparano per le spose.
Le teneva nascoste nel fondo di un cassetto, avvolte con cura in un foglio di carta velina.
Con quelle dorme sotto la terra.
Ci scusi ma noi dobbiamo andare, arrivederla.

E sparirono, lui li guardò andare abbracciati fino in fondo al vicolo e poi lentamente, scuotendo la testa, riprese la strada del ritorno.

Vincitore di tre menzioni speciali a Levico, Cesena ed Ancona.
La vicenda è di mia invenzione ma ambiente e personaggi sono quelli della mia infanzia.

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